SPECISMO, RAZZISMO INTERIORE E PAURA DI ASCOLTARSI
Che schifo i piccioni! Che belle le rondini! Che schifo le cavallette! Che belle le farfalle! Che schifo i topi! Che belli i pulcini! Che schifo le blatte! Che belli i grilli!
Osserviamo la vita attraverso gli occhiali del bene e del male e dividiamo il mondo in categorie.
Ogni cosa conforme ai nostri ideali è catalogata come gradevole e accettabile, mentre ciò che se ne discosta diventa disgustoso, spiacevole e intollerabile.
Impariamo da bambini a dividere le esperienze in buone o cattive, conformandoci ai criteri sociali che ci permetteranno di crescere.
E diventiamo adulti combattendo una strenua battaglia per impersonare ciò che piace e differenziarci da ciò che non piace.
Fino a perdere il contatto con la nostra Totalità.
Nel mondo intimo di ciascuno esistono infinite possibilità espressive.
Tuttavia, per sentirci apprezzati, finiamo per riconoscere solo gli atteggiamenti che ricevono approvazione e scartare ciò che non incontra il favore degli altri.
C’è un prezzo da pagare per ogni scelta e, per sentirci parte di una comunità, modelliamo la psiche fino a renderla conforme ai valori più gettonati.
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Ma dove finiscono le possibilità che non si accordano agli standard previsti dalla società?
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Che cosa succede alle parti rinnegate della nostra realtà emotiva?
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La risposta è semplice.
Se ne occupa la Gestapo della Psiche, grazie al servizio puntuale e preciso dei meccanismi di proiezione e rimozione.
Ossia quegli strumenti interiori che si attivano per aiutarci a diventare uomini e donne rispettabili, membri a tutti gli effetti della famiglia umana.
La rimozione e la proiezione sono le armi che collocano ogni devianza al di fuori della sfera d’identificazione adeguata al gruppo di appartenenza.
Grazie alla rimozione: cancelliamo dalla coscienza tutto ciò che può metterci in contrasto con le persone che per noi sono importanti.
E, grazie alla proiezione: proiettiamo i nostri contenuti negativi su dei rappresentanti esterni, in modo da poterli evitare, combattere e rifiutare senza sentirci chiamati in causa.
Dal punto di vista etologico l’uomo è un animale che vive in branco, cioè ha bisogno di appartenere a un gruppo per sopravvivere.
L’emarginazione e la disconferma possono essere devastanti per la psiche e condurci alla malattia e alla morte.
Per soddisfare il bisogno di appartenenza, costruiamo la nostra identità utilizzando soltanto pochi aspetti, selezionati e approvati dall’ambiente che ci circonda, e nascondiamo (anche a noi stessi) le parti che non ricevono consensi.
Quello che nell’esperienza sociale è stigmatizzato come negativo diventa rapidamente un aspetto rinnegato dalla coscienza e occultato in un angolo dell’inconscio.
Vogliamo essere amabili, rispettabili, apprezzabili e stimabili, e, per assicurarci che le qualità impopolari non ci rovinino la reputazione, le combattiamo nel mondo esterno proiettandole su dei rappresentanti che possiamo evitare e che ci provocano disgusto ogni volta che li avviciniamo.
Quasi che, trovandoci in loro presenza, potesse aver luogo un contagio capace di rivelare la nostra (inaccettabile) poliedricità.
Nascono in questo modo tante fobie, gli innumerevoli:
“Mi fa schifo!”
con cui stigmatizziamo altri esseri viventi.
Prendono forma dalla paura di non piacere e raccontano, nel linguaggio criptato dei simboli, le cose che rinneghiamo in noi.
Ma attenzione.
Ognuno possiede un vocabolario simbolico personale e generalizzare le interpretazioni delle fobie è pericolosissimo.
Si rischia di trovarsi intrappolati dentro un ginepraio di proiezioni dal quale è impossibile uscire vincitori.
Le chiavi che permettono di comprendere il disgusto o la paura riguardano il simbolismo individuale.
Sono pochissime le spiegazioni valide per tutti.
Il razzismo è un fatto personale e, per scoprirne le radici, bisogna avventurarsi nel mondo intimo di ciascuno.
Solamente alcune immagini universali permettono di pronunciarsi in termini assoluti.
Si tratta di simboli che incarnano angosce primordiali, archetipi con cui la specie umana ancora non riesce a fare i conti.
Lo specismo è uno di questi.
La parola specismo non compare quasi mai nei vocabolari della lingua italiana.
Il correttore automatico di word la segna in rosso.
Per il sistema di scrittura più famoso al mondo la parola specismo è considerata un errore di battitura.
Questo la dice lunga sul significato che lo specismo incarna nel mondo intimo di milioni di persone.
Persone che non sanno nemmeno di avere una paura perché, non potendo nominarla (e perciò parlarne) non la riconoscono in se stessi.
Eppure lo specismo esiste e ammorba di patologia la psiche degli esseri civilizzati.
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Ma insomma cos’è questo specismo?!
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Con la parola specismo si intende l’atteggiamento di superiorità che colloca la specie umana al vertice di un ordinamento gerarchico imposto a tutte le altre specie.
Detto in altri termini: lo specismo è una patologia del narcisismo che spinge l’uomo a credersi superiore alle altre creature, secondo un codice creato e approvato da se stesso, senza che le vittime di un tale arbitrio siano mai state interpellate.
Questa supremazia autoconferita fa sì che le altre specie vengano utilizzate come fossero oggetti e non esseri viventi.
Lo specismo è la matrice di ogni razzismo, la malattia che permette alla psiche umana di distaccarsi dalla natura e abusarne a piacimento senza rendersi conto che in questo modo si affermano i presupposti della sopraffazione che sta distruggendo il pianeta e la dignità degli uomini stessi.
Lo specismo nasce dalla paura di ascoltarsi e dall’arbitraria estromissione delle parti animali dalla vita interiore al fine di omologarsi ai dettami della civilizzazione.
La stessa civilizzazione che ha fatto dell’abuso e della violenza un prestigio, invece che una patologica disfunzione.
Nella cultura cui ci vantiamo di appartenere, l’istinto è considerato disdicevole.
Per essere apprezzati bisogna essere logici, razionali, impassibili, distaccati e privi di sentimenti.
Anche davanti alla sofferenza.
Soprattutto davanti alla sofferenza di chi è considerato inferiore.
La gerarchia specista detta le regole del comportamento e colloca gli animali in basso nella scala evolutiva, giudicandoli illogici, irrazionali, emotivi, istintivi e perciò stupidi.
La parola “animale” (che nel linguaggio scientifico indica qualsiasi organismo vivente eterotrofo e dotato di sensi e di movimento autonomo) nel linguaggio comune è diventato un insulto per definire una creatura rozza, ignorante, violenta, brutale e poco intelligente.
Eppure, separarsi dal mondo animale per collocarsi in cima a un’arbitraria classificazione di merito costringe gli esseri umani a disprezzare dentro di sé tutto ciò che li accomuna alla natura, privandoli delle loro preziose risorse istintuali, emozionali, intuitive e sensitive.
Una congenita lobotomizzazione dell’intelligenza emotiva è funzionale al mantenimento della patologia specista e rende impossibile l’ascolto delle proprie parti istintive che, proiettate sugli animali e disprezzate, diventano il simbolo di una mancanza di valore.
È in questo modo che la sensibilità è spenta e demonizzata fino a farne l’icona della stupidità.
Il disgusto per le specie diverse dalla nostra nasce dalla paura di ascoltare la propria profonda intelligenza animale e dal divieto di riconoscerne il valore dentro se stessi.
Perciò, anziché dire:
Che schifo i piccioni! Che schifo le cavallette! Che schifo i topi! Che schifo le blatte!
Dovremmo dire:
Che belli i piccioni! Che belle le cavallette! Che belli i topi! Che belle le blatte!
Perché tutti gli animali con la loro esistenza ci ricordano il valore della nostra intima istintualità e il legame che ci unisce in un unico e prezioso ecosistema naturale.
L’unico capace di restituirci la salute e il profondo significato della vita.
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