“DOTTORE… COS’E’ LA NORMALITA’?” risponde il dr. Enrico Maria Secci
Ciao Enrico, potresti spiegare in parole semplici che cos’è per te la normalità?
Come psicoterapeuta, la normalità non mi interessa, mi appassiono invece alla soggettività e alle meravigliose potenzialità di ogni persona, potenzialità che proprio un concetto così barbaro e vuoto come la “normalità” riesce ad adombrare sino all’apice della sofferenza mentale. Per fortuna, ho imparato molto presto che non esiste nulla di simile alla normalità e mi sono messo a ragionare, piuttosto, in termini di “soggettività funzionali”, abbandonando categorie dicotomiche che non soltanto non descrivono affatto la realtà ma la rendono veramente labirintica e infelice. Naturalmente, non è solo un mio pensiero. Da molto tempo, come sai, le scienze umane hanno abbandonato il concetto di normalità in senso assoluto per studiare la soggettività e stabilire che, sul piano clinico e, più in generale, sul piano dell’esistenza umana, le varianti dell’equilibrio personale e interpersonale sono tali e tante da rendere inservibile un costrutto di “normalità generale”. Ad esclusione di patologie gravi, che precludono il benessere dell’individuo e quello delle persone che lo circondano, la normalità è una pretesa intellettuale e un paradosso moralistico.
E non è neppure un dato statistico! Infatti, se parliamo statisticamente, gli “anormali” sono proprio coloro che stanno bene con se stessi, le persone che vivono equilibrate e serene, che amano e sono capaci di farsi amare, quelle che affermano se stesse nel rispetto della propria soggettività … casi veramente eccezionali in una società in cui la normalità è la preoccupazione dei mediocri, un’ossessione che, purtroppo, ha molto seguito…
Nel corso del tuo lavoro capita che le persone chiedano di essere aiutate a essere normali?
Devo dire che l’unica volta in cui mi è capitato si è trattato di una donna devastata dall’”anormalità” della figlia: aveva scoperto che era omosessuale. La figlia era in realtà “a-normalissima”, una ragazza determinata a vivere la propria soggettiva in totale contrasto con le pressioni, ataviche, ricevute da una famiglia rigida e solo formalmente affettiva, in realtà gelida e gravemente normativa … Ed è finita che la signora ha accettato di farsi seguire. Era una persona schiacciata dal conformismo e traumatizzata da una storia personale complessa che aveva “risolto” facendo tutto quello che gli altri intorno a lei ritenevano “normale”. La psicoterapia l’ha aiutata enormemente, soprattutto l’ha supportata nel ritrovare l’amore per se stessa, che, alla fine dei conti è il vero problema dei “normali”. Ma di questo magari parlo dopo …
Quando incontri un paziente per la prima volta, valuti se è normaleoppure cosa osservi?
Una cosa che osservo è il grado di conformismo sociale, che, per me, è espressione di molte cose che non vanno. Guardo molto gli occhi, cerco lo sguardo. Quando sono “normali”, hanno gli occhi come quelle bambole di pezza, come quei giocattoli che hanno dei bottoni cuciti al posto degli occhi. E, se succede, prendo subito le forbicine da sarto e, molto delicatamente, cerco gradatamente di liberare la soggettività che c’è dietro. Già questo è terapeutico per i pazienti: sentirsi liberati dalle protesi psicologiche che hanno indossato per adeguarsi a un contesto che ha frustrato i loro bisogni affettivi, sentirsi accettati e benvoluti per quello che sono e non per ciò che “dovrebbero essere”.
Secondo te cosa si nasconde dietro al bisogno di sentirsi normali e perché l’anormalità fa tanta paura?
Dietro il bisogno di sentirsi normali si cela un’immensa fragilità. Dietro la faticosa e inutile ascesa verso la “normalità” ci sono sempre un bambino o una bambina non amati.
C’è la storia angusta e cupa, “normale” purtroppo, di individui che hanno dovuto adattarsi alla pretese degli altri a partire dai propri genitori, per ricevere un “amore condizionato” che li ha intossicati e ha inquinato la loro vita da adulti. Provo sempre molta empatia per questa parte delle persone che seguo e rispetto il loro conflitto. L’”anormalità” gli fa paura perché affermare la loro soggettività è sempre stato sinonimo di silenzi gelidi, di intransigenze genitoriali, è sempre stata la fonte di una frustrazione immensa, per loro, per essere liberi: hanno interiorizzato il messaggio inconscio che se fossero stati “se stessi” avrebbero perduto tutto e ricevuto punizioni enormi. E, nella storia di gran parte delle persone con cui ho lavorato e con cui lavoro, i modelli d’amore disfunzionali che hanno incorporato come “validi” non hanno fatto altro che confermare che la “normalità” fosse l’unica strada da percorrere nonostante, l’ansia, il panico, la bulimia e molto altro …
Credi che sia possibile essere normali ed essere se stessi?
Quando “normalità” vorrà dire essere persone profondamente rispettose della propria soggettività e di quella altrui, sì, penserei che essere normali ed essere “se stessi” sia una fulgida, desiderabile combinazione. Ma, ora come ora, la normalità è solo uno scudo di cartapesta brandito da burattini fragilissimi … la cosa più triste è che il terreno della “normalità” è così arido che le persone, affamate e assetate, finiscono per farsi la guerra, si arrabbiano tra loro, si fanno la guerra, si contendono quell’inutile francobollo dove c’è scritto “IO SONO NORMALE e TU NO” per poi capitolare in vite tristi, percosse da segreti e da sintomi neri. Mi rattrista un po’ parlarne e mi fermo qui.
Credi che l’amore possa essere normale?
L’amore non è affatto “normale”, per me l’amore è quella condizione eccezionale che si crea tra persone autenticamente in contatto con i propri bisogni affettivi e che sono in grado di appagare quelli dell’altro e di comunicare apertamente le proprie necessità. Quando si pretende di inquadrarlo, di relegarlo a ruoli o schemi predefiniti, l’amore degenera. Ne parlo nel mio ultimo libro, che si intitola non a caso “ Gli uomini amano poco ” – Amore, coppia, dipendenza. A questo proposito, rimando al mio blog, o alla vetrina dell’Editore.
Abbiamo parlato di normalità in termini teorici e riferendoci al nostro lavoro. Vorrei terminare questa intervista con una domanda più personale … tu ritieni di essere normale?
Sono felicemente anormale, sono proprio uno “fuori”! (sto ridendo). A-normalissimo! (rido ancora). Chi mi conosce personalmente ha imparato a vedere i miei cambiamenti, l’impegno e l’amore che metto in tutto ciò che faccio e che dedico a chi mi incontra. Lo faccio con serenità, ma anche con fermezza. Ho alle spalle, come tutti gli psicoterapeuti seri, una lunga terapia personale didattica e ho passato oltre un terzo della mia vita a studiare la felicità, non solo le dinamiche dell’infelicità e della malattia. E’ una strada affascinante e richiede perseveranza. Dunque, torno alla domanda, per me è “normale” essere felice, rispettare me stesso, vivere a pieno la mia soggettività, ricambiare tutto ciò che ricevo, imparare a lasciarmi amare (ci sto lavorando) e non accetto nulla al di sotto di questo standard. Questa è la mia normalità. Compresi gli aspetti personali, coltivo una certezza incrollabile: chi fa il nostro lavoro di psicoterapeuti deve essere una persona serena, ricca, capace di scegliere; qualcuno che rappresenti una possibilità, un esempio di benessere soggettivo e del superamento dei limiti imposti dalle “normalità patologiche” che si avventano su di noi sin da piccoli, e che abbiamo, da grandi, la responsabilità di contrastare e di trasformare in un’occasione di gioia. Insomma, penso che gli psicoterapeuti e, in generale, tutti gli intellettuali, debbano distinguersi come esempi sani e prolifici di soggettività funzionali. E se la chiamano anormalità, va bene lo stesso. Perché fa audience.
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