Quando siamo bambini i genitori ci insegnano a vivere.
Poi diventiamo grandi e non abbiamo più nulla da imparare.
Infine, i ruoli s’invertono e siamo noi ad aiutare loro nel superare le difficoltà della vita.
È a questo punto che i genitori ci insegnano a morire.
Viviamo evitando di pensare che i nostri cari un giorno ci lasceranno.
Per questo sembra che la loro morte arrivi ingiustamente e all’improvviso.
Ma vita e morte appartengono allo stesso percorso esistenziale e non possono essere disgiunte.
Si vive anche… per imparare a morire.
Cioè per scivolare dentro l’immaterialità.
I genitori aprono la via verso questa dimensione sconosciuta, ancora troppo irreale per noi figli.
Con i loro comportamenti, più che con le parole, ci insegnano a guardare la morte negli occhi.
A non sfuggirla.
Ci mostrano come passare dalla dimensione concreta e familiare, che chiamiamo vita, a quella immateriale e misteriosa, che chiamiamo morte.
Anche se non siamo abituati a parlarne tutti ci domandiamo come e quando abbandoneremo questa realtà.
Si tratta di osservazioni fugaci cui non dedichiamo troppo tempo né molta attenzione perché ci è stato insegnato a giudicarle pericolose e a non indulgere in queste riflessioni.
Come se anche il solo pensarci potesse evocare la tragedia.
Eppure sono proprio i genitori a sfatare questo velo di oblio e a permetterci di osservare la morte da vicino, aiutandoci a prendere confidenza con il trapasso e costringendoci a una riflessione sul significato profondo della vita.
Nessuna morte (proprio come nessuna vita) arriva mai per caso.
Nascere e morire sono gli estremi di un’unica esperienza, colma di significato.
La perdita di un genitore è un evento che insegna molte cose e cambia di colpo la prospettiva dell’esistenza.
Perché costringe a misurarsi con la più grande di tutte le paure.
La paura di scomparire nell’ignoto e nel nulla.
La morte, come la nascita, ci priva di ogni certezza e ci scopre soli e impreparati.
Permettendoci di guardare la loro morte i genitori ci fanno un dono che completa il compito assunto mettendoci al mondo.
Col loro esempio ci mostrano una strada e un modo per vivere la perdita della corporeità.
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La morte è una scelta.
Inconscia.
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Il nostro inconscio sente quand’è il momento giusto per morire.
Anche se la ragione non lo ammette e si ostina a considerare la fine della vita fisica: una casualità imprevedibile.
Il cuore, invece, è agile in dimensioni diverse dalla fisicità.
Sa che la morte è una trasformazione e, nella sua percezione, riconosce la scelta.
Di cambiamento.
Serve per dare compiutezza alla vita.
La morte di una persona cara aiuta chi possiede un corpo a spostare l’attenzione dalla fisicità e a concentrarsi sull’immateriale.
In quei momenti la paura di perdere gli affetti distoglie dalla concretezza e riallaccia l’essenza delle cose.
La scelta di morire regala a chi resta un tracciato per compiere quel passaggio.
Proprio come da bambini ascoltando e criticando gli insegnamenti dei genitori abbiamo costruito il nostro peculiare modo di vivere la vita, oggi osservare la morte di mamma e papà ci aiuta a formare i criteri con cui attueremo il nostro cambiamento di stato.
Quando sarà arrivato il tempo per aprirci all’immaterialità.
I genitori sentono la morte arrivare e… la accolgono.
Anche quando preferiscono non parlarne e non lo raccontano a nessuno.
Nemmeno a se stessi.
Possiamo rendercene conto osservando i loro mutamenti.
Dapprima impercettibili.
Poi sempre più evidenti.
Molto tempo prima che sia giunto il momento di separarsi dal corpo, di solito, incominciano a fluttuare tra una dimensione e l’altra.
Dalla fisicità all’astrattezza.
Dall’astrattezza alla fisicità.
In maniera spontanea e naturale, il loro interesse si sposta dal mondo delle cose concrete, al mondo immateriale.
Per questo, sembra che stiano perdendo colpi.
In quei momenti di assenza avviene un cambiamento di prospettiva e l’attenzione si focalizza sulla percezione interiore.
Questo fisiologico passaggio dall’esteriorità all’interiorità, quel loro esserci e non esserci insieme, segnala l’inizio della trasformazione.
Non sempre, però, quest’andirivieni è condivisibile.
Se nel corso della vita non siamo stati abituati ad ascoltare le percezioni del cuore il mondo interno diventa una scoperta troppo difficile da condividere in punto di morte.
Proprio perché l’abitudine a rifuggire l’interiorità non permette di sviluppare parole adeguate a comunicarne l’esperienza.
Ma il tacere che, spesso, accompagna le assenze non significa che la fluttuazione tra le dimensioni materiali e immateriali della coscienza non avvenga.
L’astrazione dalla fisicità si realizza sempre.
Ciò che può mancare è soltanto il racconto verbale di quello che succede dentro.
Del resto, nessuno di noi ha potuto usufruire di strumenti efficaci a parlare di morte.
La mente scappa davanti a questi temi.
Ciò che conta è la comprensione emotiva che avviene a prescindere dalle terminologie.
Nel nostro intimo dialoghiamo sempre con i genitori durante il passaggio che conduce alla morte.
Lo facciamo (più o meno inconsciamente) dentro una dimensione immateriale e quasi telepatica, fatta di sensazioni e di emozioni più che di discorsi.
Possiamo stare con loro durante le assenze e chiacchierare insieme consapevolmente, adoperando il cuore.
Oppure possiamo focalizzarci sulla fisicità, lasciando che l’inconscio gestisca da solo questo scambio d’informazioni.
La condivisione avviene comunque, che ne siamo consapevoli o no.
Fa parte del dono.
Amplifica il legame.
Fluttuare tra le dimensioni aiuta a perdere del tutto la corporeità, permettendo di vivere più intensamente l’unione.
Nel corso del tempo la nostra ragione formerà le parole per raccontarsi come tutto questo è successo.
Grazie Carla ,leggendo ho trovato l’inquadramento psicologico di ciò che ho visto e vissuto ,ma che ho percepito confusamente, come qualcosa di grande e importante che c’era ma non aveva connotazione. Ora ce l’ha.
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Grazie Carla ,leggendo ho trovato l’inquadramento psicologico di ciò che ho visto e vissuto ,ma che ho percepito confusamente, come qualcosa di grande e importante che c’era ma non aveva connotazione. Ora ce l’ha.