CAMBIAMENTO E COMPLESSITÀ

Affrontare percorsi terapeutici non significa certamente diventare psicologi ma, tra le altre cose, acquisire consapevolezza circa i meccanismi di funzionamento mentali e relazionali che ci riguardano.

Spesso incontro genitori decisamente fermi e orgogliosi dei loro stili educativi, genitori che, in base alle scelte che hanno messo in atto, hanno spesso raggiunto ottimi traguardi in termini di relazioni efficaci con i loro figli.

Capita però che gli stessi si trovino ad affrontare delle fasi del ciclo di vita in cui le modalità educative utilizzate durante fasi precedenti non producono più gli stessi effetti, o non risultano idonee per tutti i figli, e pertanto necessitano di essere messe in discussione e riformulate.

Ciò di cui non si tiene conto è la complessità dentro la quale ci muoviamo costantemente.

Di fatto la nostra mente tende a funzionare in maniera “economica” poiché cerca di ottimizzare al meglio le informazioni che recepisce.

È pur vero che non possiamo soffermarci su ogni singolo stimolo e analizzarlo puntigliosamente, sarebbe un dispendio energetico troppo grande e spesso inutile.

Pertanto la mente si abitua a funzionare facendo economia delle proprie risorse.

Questa modalità di funzionamento si scontra sia con la necessità di evoluzione e di cambiamento, fondamentali nel processo di crescita di ogni persona, sia con la complessità di stimoli che ci pongono sempre davanti a nuovi bivi e scelte.

Davanti al cambiamento le persone cercano di ostacolarlo, piuttosto che accoglierlo come una risorsa.

E la resistenza al cambiamento è spesso maggiore tanto più le modalità precedenti hanno prodotto successi.

Una famiglia arriva in terapia perché l’adolescenza del terzo figlio si sta rivelando molto più complessa di ciò che avevano immaginato.

L’aver affrontato in maniera abbastanza contenuta e serena le adolescenze dei due figli più grandi aveva fatto sì che si fosse cementata la convinzione che avessero assodato modalità convenienti e funzionali nell’affrontare questa fase di vita.

Invece il terzo figlio è “diverso”, il terzo figlio è l’anomalo, quello strano, il terzo figlio non capisce, non riesce a integrarsi.

E in un attimo quel bimbo che qualche anno prima condivideva l’idillio familiare, diviene lo straniero dal quale prendere distanze.

Cosa sta accadendo in questa famiglia?

La famiglia sta faticando nel riconoscere la complessità e il cambiamento e sta chiedendo al terzo figlio di rinunciare alla sua unicità in virtù del mantenimento di stili educativi e relazionali cristallizzati.

Che compito ha la terapia in questi casi?

Attraverso la terapia si possono accompagnare i genitori verso la consapevolezza di ciò che sta accadendo e di conseguenza aiutarli a trovare modalità relazionali adeguate che provengono unicamente dall’accettazione e dalla conoscenza del loro terzo figlio, invece che continuare ad alimentare l’illusione del figlio immaginato ma diverso dal reale.

È vero che anche gli adulti sono stati adolescenti ma è pur vero che l’adolescenza attuale assume delle connotazioni ben lontane e differenti da quelle delle precedenti generazioni, poiché il contesto sociale è sempre più complesso e dinamico.

Pretendere che i ragazzi sposino totalmente le prospettive degli adulti significa portarli a scegliere tra la famiglia e il contesto sociale.

Diventa pertanto fondamentale acquisire più conoscenze possibili per accompagnarli nell’esplorazione del loro periodo storico, piuttosto che viverli come alieni e lasciarli soli davanti al mondo.

Martina Mastinu

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