Da bambini ci abituiamo a mangiare certi alimenti e a rifiutarne altri, in armonia con le usanze della nostra famiglia e con le tradizioni del paese in cui siamo nati.
I grandi ci insegnano ad apprezzare il sapore, l’odore e la consistenza dei cibi e ci spiegano che sono necessari per crescere sani e forti.
La cultura gastronomica che abbiamo ricevuto tra le mura domestiche determina in noi una “competenza alimentare” che, con la maturità, difficilmente verrà messa in discussione.
A parte alcuni casi particolari (una malattia, un percorso spirituale, una nuova consapevolezza ecologica, il trasferimento in un paese straniero…) i piatti che abbiamo assaporato da piccoli diventano per noi l’emblema della “nutrizione corretta” e, crescendo, non andremo a verificare se i presupposti alimentari su cui si basano siano salutari oppure no.
Come per tante altre acquisizioni, ciò che abbiamo imparato entra a far parte delle abitudini e non viene più messo in discussione.
È per questo che, nonostante la mole di ricerche volte a dimostrare quanto la maggior parte di ciò che mangiamo sia dannoso per la salute e provochi l’insorgere di gravi malattie, preferiamo focalizzare l’attenzione sulle immagini colorate stampate sopra agli involucri degli alimenti piuttosto che valutarne i componenti e i metodi di lavorazione.
Convinti di aver ricevuto in famiglia un’adeguata preparazione alimentare, continuiamo a ignorare i principi fondamentali della nutrizione sana e ci scordiamo che la manipolazione industriale priva i cibi delle loro proprietà vitali, riempiendoli di sostanze tossiche.
Durante le preparazioni e i procedimenti di conservazione, infatti, la maggior parte delle qualità nutritive va perduta e il sostentamento che otteniamo dalle pietanze è, sempre più spesso, solamente psicologico.
Mangiare soddisfa il bisogno di gratificarci e ha ben poco a che vedere con l’assimilazione dei nutrienti necessari a mantenerci in buona salute.
Abbiamo trasformato l’alimentazione in una pausa ricreativa e su questo presupposto ludico coltiviamo una gastronomia che con la nutrizione non ha quasi più niente a che fare.
Nei nostri pasti ciò che conta, infatti, non sono le sostanze nutritive ma il piacere che riusciamo a procurarci mettendo qualcosa di buono sotto ai denti.
Un piacere legato principalmente al gusto e al bisogno di staccare la spina dai ritmi frenetici della giornata.
Via libera quindi a tutti quegli alimenti che permettono di affievolire la tensione creando un delizioso intorpidimento nel corpo e nella mente, e che aiutano a dimenticare le preoccupazioni quotidiane, spegnendo i pensieri almeno per un po’.
Alimenti che, per ottenere il loro magico effetto antistress, devono impegnare a lungo il sistema digestivo e che, per mantenere inalterata la loro efficacia, generano il bisogno di aumentare progressivamente le dosi fino a renderci assuefatti e dipendenti.
È risaputo che uno stile alimentare basato sul consumo di frutta e verdura fresca è più salutare dei tanti appetitosi manicaretti con cui soddisfiamo la nostra insaziabile voracità.
Scegliere di consumare solo alimenti idonei alla salute, però, è una decisione adatta a pochi coraggiosi, capaci di combattere le inevitabili crisi di astinenza (conseguenti all’abbandono del cibo spazzatura) con una forte motivazione.
La maggior parte delle persone preferisce nutrire la convinzione:
che la carne sia indispensabile per le proteine
che i latticini servano a sintetizzare il calcio nelle ossa
che le uova siano l’unica fonte di vitamina D
che lo zucchero faccia bene al cervello
e che le farine raffinate forniscano carboidrati capaci di trasformarsi in energia lungo tutto l’arco della giornata
Convinzioni contestate dalle ricerche e dall’esperienza medica (intolleranze, allergie, diabete, cancro… sono solo alcuni esempi) ma radicate nella mente di chi a certi cibi non riesce a rinunciare perché la dipendenza ha preso il sopravvento sull’obiettività.
É per questo che ci sentiamo bene cucinando e condividendo proprio quelle pietanze che promettono di tenere impegnata a lungo la digestione, assicurando quel meraviglioso ottundimento che allevia la pressione emotiva.
Cibi come antidepressivi, quindi.
Economici e facilmente reperibili.
Cibi che non placano i bisogni del corpo e che mantengono viva la fame, garantendo una vendita illimitata di prodotti.
Cibi che spengono i pensieri e la coscienza, lasciandoci credere in una libertà di scelta basata sulla disponibilità degli articoli, invece che sulla qualità.
Cibi che annegano il bisogno di riposo e l’attenzione dentro un fiume di incoscienza e di tossicità.
Tutto quello che mangiamo per abitudine e “Perché si è sempre fatto così!” ha un effetto potente sulla psiche: inibisce l’ascolto del corpo e la capacità di riconoscerne la naturale semplicità, fatta di movimento, di aria buona, di frutti freschi coltivati con amore, di rispetto per la vita e per il pianeta.
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